La vita di Bobby Fischer
Robert James Fischer nasce il 9 marzo 1943 a Chicago. Non seppe mai con certezza chi era il suo padre biologico.
Secondo la leggenda imparò a giocare a 6 anni grazie alla sorella, Joan, che gli regalò una scacchiera con annesso libretto di istruzioni che Fischer lesse e grazie al quale imparò a giocare, allenandosi con sua sorella che in poche settimane si dimostrò un’avversaria troppo debole per il suo livello.
All’età di 13 anni la madre di Fischer chiese a Jack Collins di fargli da istruttore, conscia della sua fama dovuta all’aver insegnato a William Lombardy e Robert Byrne. Fischer passò molto tempo a casa di Collins tanto che viene considerato dallo stesso Fischer come un padre.
Da questo momento l’ascesa di Fischer fu fulminea. In soli 16 anni (che furono effettivamente solo 11 a causa del ritiro tra il 1962 e il 1967) diventò Campione del Mondo, ritirandosi nel 1975 per diatribe con la FIDE.
La “scoperta” del genio
Onestamente ho scoperto Fischer un po’ per caso, chiedendo a papà chi fosse il suo giocatore preferito. Lui rispose raccontandomi dei record di Fischer e del suo immenso talento.
Personalmente lo considero il GOAT (Greatest Of All Time) per un semplice discorso: Fischer è riuscito, solo con l’aiuto di William Lombardy, comunque non un grandissimo giocatore, a sconfiggere un sistema, quello dell’URSS che riusciva a dare carte in ambito scacchistico a livello mondiale senza difficoltà (basti pensare che dal 1948, anno di insediamento di Michail Botvinnik, al 1972, anno in cui Fischer vincerà il mondiale, non c’era mai stato un match fra un russo e un esterno, e lo stesso succederà fra il 1984 e il 1990).
Dichiarò guerra all’URSS tramite un articolo datato 1962, in cui accusava i Russi di alterare i risultati delle loro partite. Riuscì, poco a poco, ad entrare nella testa dei sovietici, che hanno strutturato addirittura 2 reportage su di lui in cui lo definivano “Fischer non è molto sicuro di sé nelle posizioni chiuse, che di conseguenza tende a evitare. Nelle manovre, nelle posizioni con il centro bloccato, Spassky e Petrosian sembrano essergli superiori”, definizione poi dimostrata come inesatta dallo stesso Fischer nei vari match del Torneo dei Candidati. Fin da quando Fischer si iscrisse all’Interzonale, i sovietici erano consci che fosse l’unico serio pericolo per il dominio di Spasskij e dell’intero sistema sovietico.
Il “Match del secolo”
Il famoso “match del secolo” a Reykjavik fu in pericolo finché Fischer non giunse in Islanda a causa delle sue richieste. Lo stesso Fischer venne “convinto” a partire per Reykjavik da una telefonata di Henry Kissinger iniziata così “Qui è il peggior scacchista del mondo che telefona il miglior scacchista del mondo”, ad indicare l’importanza che quel match assunse per gli USA a quel tempo in ottica Guerra Fredda, tant’è che Nixon in persona, all’epoca Presidente della Repubblica degli USA, gli mandò due lettere, una di congratulazioni e un’altra di incoraggiamento, proprio per rafforzare la propria sicurezza nella battaglia scacchistica nel macrocosmo della Guerra Fredda.
Fischer era un giocatore che basava il suo gioco sulla psicologia. Il match fu basato molto su un fragilissimo equilibrio psicologico, tanto che Spasskij, a posteriori, si disse pentito di aver giocato la terza partita del match in quanto giocandola ha rotto l’equilibrio che si era andato a creare nei due anni precedenti: il Campione del Mondo in carica, dopo aver vinto la prima partita per una svista di Fischer ed essersi visto assegnare la vittoria a forfait per l’assenza dello sfidante nella seconda, iniziò con questa partita la parabola discendente che lo condusse alla sconfitta. Era la prima volta che Fischer batteva Spasskij, e, ovviamente, non fu l’ultima.
La provocazione di Bobby Fischer
Come ultima considerazione, vorrei lanciare una provocazione. Spesso si parla di come il livello del gioco moderno dei nuovi GM e Super GM sia qualitivamente migliore di quello dei grandi campioni del ‘900. Si perde una parte del discorso fondamentale: il gioco è diventato molto più inumano. Io, ad esempio, non riesco ad immedesimarmi nel gioco (per dire) di Carlsen, in cui trovo molte mosse che, per quanto mi riguarda, sono insensate, anche se, secondo i motori, perfette: sicuramente hanno ragione l’ex Campione del Mondo e i computer, ma ciò non toglie che certe mosse mi sembrino completamente “aliene”, del tutto inumane ed emotivamente insignificanti.
Spesso si dice “Carlsen all’epoca di Fischer avrebbe stracciato tutti senza problemi”: non si considera che Carlsen, negli anni ‘70 non avrebbe avuto i motori con cui è cresciuto in questo periodo storico, oppure, al contrario, che Fischer in questi anni avrebbe avuto a disposizione i motori di oggi e, probabilmente, ci avrebbe guadagnato in salute mentale oltre che in qualità di gioco.
L’ascesa al titolo di Bobby Fischer
Fischer è stato fulminante nella sua carriera, così travolgente ed interessante da appassionare al gioco persone che non avevano idea dell’esistenza stessa degli scacchi. Per rafforzare il concetto che ho espresso su Bobby, credo che bastino un paio di dati: nel 1967, l’Interzonale di Sousse fu abbandonato dal genio americano per protesta quando era terzo in classifica -ma con 4 partite in meno rispetto a Larsen- con l’incredibile punteggio di 8.5/10; nessuno, nella storia degli scacchi, ha vinto 20 partite consecutive (contro giocatori di altissimo livello internazionale) come fece lui fra il 1970 (Interzonale di Palma di Maiorca) e la seconda partita del match di finale del Torneo dei Candidati nel 1971, quando fu finalmente sconfitto da Tigran Petrosian.
Nel frattempo, Fischer aveva disintegrato i suoi avversari negli ultimi 7 turni dell’Interzonale affibbiando un 6-0 al sovietico Taimanov (in quel momento Elo 2630) e un ancor più clamoroso cappotto a Larsen (n. 3 del mondo con un Elo 2655).
Bobby Fischer vs Carlsen
Voglio solo ricordare che Carlsen vinse il Mondiale 2018 (probabilmente il più noioso della storia) solo allo spareggio Rapid contro Caruana (imbattuto nella fase “regular”) e nel 2021, pur dominando, non polverizzò in termini di punteggio lo sfidante Ian Nepomniatchi.
La fine di un’era e del suo Re
Fischer è stato una rivoluzione nella sua vita così fuori dagli schemi, marcata purtroppo dall’alienazione mentale che lo condusse a una tristissima parabola discendente che il match-farsa del 1992 con Spasskij non fece altro che rendere più acuta. Non era più il genio scacchistico assoluto, ma un mediocre giocatore, e a me fa veramente male sapere che da quel momento in poi quell’americano alto e dinoccolato, sempre elegante, si ridusse a essere un barbone che odiava gli scacchi. Un talento purissimo devastato da milioni di demoni, un uomo affascinante, altissimo, quasi due metri, con “dita grandi come i cannelloni che faceva mia nonna”, scrive Andrea Barbaglia nel suo libro (non accuratissimo sotto il profilo tecnico, ma molto molto bello: “La mossa del matto”).
Nella storia degli scacchi, sicuramente non c’è stato campione più detestato e al contempo amato di Bobby Fischer. Detestato dai suoi avversari, che a stento sopportavano i suoi capricci, era ed è amato dagli appassionati del gioco per le sue pirotecniche partite. In un’intervista in un programma televisivo, Fischer, in un raro momento di lucidità, una volta disse: “Quello che contraddistingue i giocatori veramente grandi è che continuano a insistere finché non raggiungono il loro obiettivo”.
Mi piace chiudere questo articolo con le parole del Maestro Internazionale Bill Hartston il quale una volta disse: “Gli scacchi non fanno impazzire le persone, mantengono le persone pazze sane“. Nulla di più vero se consideriamo la vita del GOAT: quel Fischer per il quale, in un film del 2014 in cui Bobby è interpretato da Tobey McGuire (“La grande partita”), il personaggio di Bill Lombardy esclama: “Fischer non aveva paura di perdere, ma aveva paura di cosa sarebbe successo se avesse vinto”. I fatti del 1975, con la rinuncia al titolo, gli diedero ragione.
Articolo a cura di Alessandro Fabio Marino